Squid Game è davvero un problema?

Alzi la mano chi non ha visto o non ha almeno una volta sentito parlare di quello che è diventato un vero e proprio fenomeno culturale del momento. Lo “Squid Game” che è sulla bocca di tutti è una serie tv coreana trasmessa su Netflix da circa un mese e che vede protagonisti uomini e donne indebitati fino ai capelli contendersi un montepremi miliardario cimentandosi in giochi dall’apparenza infantile e che tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo fatto con la diversa conseguenza che una volta terminato il gioco, chi viene eliminato, anziché essere sottoposto ad una penitenza, viene ucciso. Per cui giochi semplici e anche tanto amati come “Un, due, tre, stella”, il tiro alla fune, il lancio delle biglie, fungono da scenario per delle sanguinose carneficine finalizzate ad accaparrarsi il premio in denaro tanto ambito. 

Quel che ha fatto preoccupare milioni di genitori, insegnanti, dirigenti scolastici e addetti al lavoro educativo, è l’equivocabilità che si nasconde dietro la parola “gioco”. Perché lo Squid Game, il gioco del calamaro, che viene proposto, non ha nulla di innocente, nulla di ludico o di divertente, ma il gioco così come inteso, diventa solo un contenitore dove dar vita ai più primitivi istinti di sopravvivenza, dove ognuno dei partecipanti riconosce di essere una semplice pedina che deve muoversi lungo un percorso tortuoso fatto di prove sempre più crudeli e cruente. Per certi versi è la condanna dell’infanzia per come la conosciamo e per come l’hanno conosciuta i quattrocentocinquantasei partecipanti al gioco. Giochi da bambini ma non per bambini.

E il controsenso è proprio in questo. Arrivano segnalazioni da moltissimi istituti scolastici di bambini che durante la ricreazione sono stati ripresi a giocare ad “Un, due, tre, stella” simulando colpi di pistola e finte morti qualora uno o più di loro fossero beccati in movimento, o di ragazzi che facevano ricorso alla violenza, a percosse e lanci di zaini dalle finestre, a discapito di compagni incapaci di superare prove a cui erano stati sottoposti. Il tutto sotto l’etichetta dello Squid Game.

Ma lo Squid Game è davvero un problema? Per quanto Netflix trasmetta la serie tv con il divieto di visione al di sotto dei 14 anni, la fascia dell’infanzia sembra essere fortemente permeabile alla visione delle immagini trasmesse. Il problema allora sembra essere più connesso alla facilità con la quale bambini e ragazzi riescono ad accedere a contenuti di questo tipo. In seguito alla pandemia e alla lunga chiusura delle scuole, abbiamo tutti fatto i conti con l’iperdigitalizzazione dei nostri figli che tra tablet e computer hanno dovuto sopperire alla mancanza di prossimità aprendo però il grande vaso di pandora dell’universo online. E il controllo, in grossa o minor parte, è sfuggito dalle mani dei genitori. Perché il punto sta tutto lì, nella libertà di cui godono i bambini e su quanto sia anche “facile” per loro trovare riferimenti a materiale video da bollino rosso o giallo. Anche lo streaming ha subito un grande cambiamento, adesso accedere alle diverse piattaforme per la visione di film e serie tv è diventato ancora più facile perché tutte sono fruibili già all’interno della propria smart tv o nei decoder di ultima generazione. Per cui, ad esempio, un bambino che sta guardando un cartone animato in completa autonomia, può benissimo, attraverso il telecomando, cambiare piattaforma e ritrovarsi su Netflix, Disney+, Prime Video, Apple Tv o Sky, senza che il genitore se ne accorga e, se non presente il parental control, usufruire dell’offerta dei vari palinsesti senza alcuna limitazione.

Ma lo Squid Game è davvero un problema? Perché se anche un bambino incuriosito dall’immagine di copertina ci cliccasse sopra e iniziasse a vederlo, si troverebbe a dover seguire una storia in lingua originale con i sottotitoli che prima ancora di portare alla fatidica scena dell’”Un, due, tre, stella” avrebbe dovuto propinarsi più di mezz’ora di puntata. Servirebbe un adulto per fare questo! Seppur non escludendo la possibilità che alcuni bambini abbiano potuto vedere la serie coreana in compagnia di un adulto, è molto più probabile che siano riusciti ad assistere alla riproposizione delle scene più citate osservandole attraverso gli schermi di smartphone e tablet sui vari social, tik tok o youtube. Perché la violenza viaggia veloce ed è facile che ci si imbatta anche inavvertitamente. Il problema non è lo Squid Game in sé, perché altro non è che l’ennesimo cappello che indossano in testa tutti quei ragazzi che della violenza hanno fatto un “valore”, una risposta reattiva alla società, agli obblighi, alla insopportabilità della sofferenza propria e altrui. 


Viviamo in una società dove bambini e ragazzi, se non infarciti di attività da fare, sperimentano un senso di noia perenne che ad oltranza genera come risposta un’aggressività non giustificata. E i genitori pur di sottrarsi a quell’aggressività, per evitare di gestirla, imbastiscono un cronoprogramma da seguire alla lettera fino al fatidico “tutti a nanna”. La noia, come quella che muove l'ideatore dello Squid Game a prendere parte egli stesso al gioco. Allora il problema vero non è in ciò che viene visto in televisione o in rete, il problema è ancora una volta di matrice pedagogica. Per una società che non educa e che al contrario slatentizza il significato di violenza, corrispondono adulti spesso incapaci di fissare un limite, una traiettoria e un confine, incapaci di bonificare immagini, introiettare contenuti positivi, dedicare tempo. Si è sempre più deleganti verso l’esterno, sempre più desiderosi di rendere autonomi bambini e ragazzi pensando che una “autogestione”, piccola o grande che sia, possa solo essere positiva e accrescitiva. Ma così facendo si consegna loro una libertà che rischia di diventare ingestibile e che può sfociare in perdita del controllo, allontanamento dagli ideali a favore di falsi miti e in un impoverimento educativo.


Ma lo Squid Game è davvero un problema? Forse non occorrono petizioni e raccolte firme per bloccare la serie su Netflix, come se tale mossa di per sé bastasse ad oscurare tutta la violenza presente in tutto ciò che si vede ed ascolta in giro. Quasi come se si necessitasse di un capro espiatorio, un nemico da affrontare e sconfiggere per ridurre il male sulla terra. Purtroppo questo è il miraggio dei ciechi, di coloro che attaccano il “Porca puttena” di Lino Banfi perché incitante all’uso di un linguaggio volgare o che boicottano la scuola accusandola di diffondere messaggi pornografici se nelle sue aule vengono affrontate sane discussioni sulla sessualità, l’identità di genere e l’accettazione di sé. Si oscilla tra il bigottismo e il permissivismo senza alcuna capacità di mediazione, in una confusione che genera anarchia culturale e nichilismo intellettuale. E chi ci perde siamo noi, sono i nostri ragazzi, i nostri bambini. Perciò me lo domando nuovamente: lo Squid Game è davvero un problema? Magari la risposta la troveremo giocandocela a morra cinese.

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